sabato 7 luglio 2007

Ballo in Fa# minore


Proprio ieri, chiacchierando con un'amica, prendendo a spunto questa bella canzone di Branduardi, mi vennero a mente alcune considerazioni sul Tempo e sulla Morte ad Esso connessa. "Sono Io la Morte e porto corona, io son di tutti Voi signora e padrona...". La Morte procede per linea retta, è connaturata al concetto lineare di Storia proprio del pensiero giudaico-cristiano. La Morte, nella sua accezione più propriamente medievale, rappresentata iconograficamente da una figura incappucciata di nero avanza lentamente mietendo vittime con la sua falce. Antropologicamente, la linea ha un carattere dirompente, persegue lo scopo fendendo, ed aprendosi un varco verso tutto ciò che si trova lungo il suo cammino. Il tempo lineare ha un inizio e una fine. La genesi giovannea inizia con l'incipit: "in principio fu il verbo" in cui con l'in principio si avvia il cammino di un tempo che, pare volersi allontanare da un contesto a-temporale. La morte persegue la Fine. Poi ad un tratto, nella canzone da me proposta, la morte viene invitata a danzare nel cerchio: "Sei l'ospite d'onore del ballo che per Te suoniamo, posa la falce e danza a tondo a tondo, il giro di una danza e poi un'altra ancora, e tu del tempo non sei più signora". Il cerchio esorcizza la morte, in esso non vi è inizio né fine, si che la morte in esso non ha senso alcuno. La linea distrugge nel perseguire uno scopo ben preciso, il cerchio cerca il Suo senso nel conflitto e nella negoziazione continua. Nelle culture selvagge, senza storia, esiste il mito dell'eterno ritorno. I cacciatori ripetono con dovizia di particolari le gesta dei primi cacciatori all'infinito, ri-attualizzando un momento passato. Il Mito, quindi, rifonda la Storia?

Temistocle

1 commento:

rugiada ha detto...

Amici mio la "morte" ha qualcosa di paradossale: pur essendo uno dei momenti più significativi nella vita di una persona, perché la conclude e perché intorno ad essa il pensiero ha elaborato riflessioni e rappresentazioni a non finire, non è traducibile in alcuna esperienza.
Ai fini di un'esperienza di vita è, in tal senso, molto più importante il dolore, anche perché di questo noi possiamo conservare un ricordo, che poi può servirci per sopportare meglio il dolore la volta successiva.
Il dolore ci fortifica, la morte ci distrugge o, se vogliamo, ci libera dal peso di un dolore insopportabile, vero o immaginario che sia, sempre che la morte sia per così dire "naturale" e non ci colga di sorpresa.
Noi possiamo avere esperienza solo della morte altrui, che ci addolora in misura proporzionale ai sentimenti provati per quella persona in vita.
Il motivo per cui non riusciamo ad accettare la morte è dovuto al fatto che per istinto rifiutiamo l'idea che ci venga a mancare una persona amata. Altri motivi sono più astratti: ci chiediamo p.es. che senso abbia la morte di un bambino o la morte di un adulto che dalla vita non ha ottenuto che dolori.
Ma una vita che abbia condotto un'esistenza normale, di regola avverte la morte come un fenomeno naturale, che pone fine a una vita che si sta logorando. E' proprio la consapevolezza di veder deperire fisicamente il corpo che induce a vedere la morte come una soluzione liberatoria.
Anzi, si potrebbe dire che si avverte la fine come prossima quando la vita in generale, il suo trascorrere nel tempo, le forme in cui essa si manifesta non risultano più idonee a proseguirla e vengono in sostanza percepite, o meglio, sentite, come un peso insopportabile.
Il corpo è un involucro soggetto a decomporsi: quando si comincia ad avere consapevolezza di questo, si comincia anche a desiderare di vivere una nuova condizione. Questo processo evolutivo può essere tranquillamente applicato alla storia di tutte le civiltà.
E' proprio il concetto di tempo, la percezione del suo trascorrere, che ci mette in condizioni di comprendere se determinate forme di esistenza possono essere considerate irreversibilmente superate o no.
Non c'è modo di stabilire a priori, se non in maniera molto vaga e astratta, quando avverrà la transizione da una forma di vita a un'altra. Il problema vero infatti non è tanto quello di sapere il momento esatto, quanto piuttosto quello di attrezzarsi per affrontare quel momento in maniera adeguata.
Bisogna cioè fare in modo che il processo avvenga nella maniera più naturale possibile, nel rispetto dei tempi che ci sono dati di vivere: le transizioni sono sempre dolorose, poiché costituiscono una rottura col passato e l'ingresso in una condizione d'esistenza del tutto nuova, in cui inizialmente ci si muove come principianti.
Diciamo che, in generale, quanto più si è capaci di agire in maniera responsabile, accollandosi le fatiche della transizione, tanto meno drammatico sarà il suo esito. Si tratta di compiere un lavoro personale e collettivo, poiché l'essere soggetti a una parabola evolutiva è un destino comune a ogni essere umano e a ogni civiltà.
Qualunque anticipazione arbitraria della nostra fine o della fine di una civiltà è indice sicuro di alienazione. Chi fa della morte il significato della propria vita in realtà è già morto. Non si può attribuire alla morte un significato più grande di quello che si deve attribuire alla vita, appunto perché della morte noi non possiamo avere alcuna vera esperienza.
Le correnti di pensiero filosofiche e teologiche che preferiscono considerare l'attimo della morte più importante della prosaicità della vita quotidiana, generalmente vengono annoverate nel filone dell'irrazionalismo.
Le civiltà che smettono di credere nei valori umani concludono la loro esistenza nella maniera più tragica possibile: distruggendo altre civiltà e in sostanza autodistruggendosi.
Saluti Rugiada